La digitalizzazione del Paese passa attraverso la trasformazione dei Comuni
I territori stanno lavorando per essere completamente connessi e digitali nel più breve tempo possibile. Sappiamo bene che la condizione di partenza non è ottimale, l’Italia si colloca al diciottesimo posto su 27 Paesi dell’Unione Europea come livello di digitalizzazione[1], e al diciannovesimo se guardiamo al solo segmento dei servizi pubblici. Tuttavia, non dobbiamo commettere l’errore di pensare che questo gap si possa recuperare solo con l’infrastruttura digitale realizzata dal governo centrale, questa rappresenta solo la necessaria precondizione, ma la sfida del digitale si vince sui servizi, soprattutto locali, attraverso i quali portiamo la digitalizzazione nel punto più vicino a cittadini e imprese.
È bene essere chiari su questo punto: l’azione del governo è imprescindibile per diffondere gli strumenti abilitanti che devono essere uguali per tutti, come l’identità digitale e il sistema dei pagamenti elettronici, e per sviluppare l’interoperabilità tra i sistemi della PA, realizzando così quell’omogeneità nei servizi digitali che ci chiedono i cittadini e le imprese e per rendere effettivo il principio dell’“una tantum”.
L’azione dei territori è essenziale perché permette di procedere con “la messa a terra”, che collega quegli strumenti trasversali ai processi delle singole amministrazioni locali, consentendo di ottenere così i risultati migliori per i cittadini e le imprese di quel determinato territorio. L’ultimo miglio della digitalizzazione lo ritroviamo in diversi elementi quali il catasto, l’urbanistica, l’edilizia, la protezione civile, i rifiuti, i tributi, i servizi sociali, l’edilizia scolastica, la sicurezza urbana e l’anagrafe. Dalla digitalizzazione dei servizi in capo ai Comuni passa quindi anche la digitalizzazione del Paese, dobbiamo quindi esserne consapevoli e agire di conseguenza. Il PNRR sta dando una spinta in tal senso.
La digitalizzazione deve essere per tutti: grandi metropoli e piccoli borghi
Tutto questo ci costringe ad abbandonare qualunque tentazione di considerare la digitalizzazione dei servizi pubblici locali come “un progetto bandiera” appannaggio delle sole città metropolitane. Tutti i comuni italiani, fino al più piccolo borgo delle aree interne, devono agire con convinzione, consapevoli dell’importanza della partita che stanno giocando.
Guardando i dati dell’analisi EY Human Smart City Index[2] emerge ancora un sostanziale divario tra le grandi città e il resto delle Amministrazioni. Il dato sulla digitalizzazione indica un valore doppio nelle grandi città rispetto alle piccole, ma anche altre importanti analisi da cui si evince che al diminuire della dimensione della città diminuiscono i servizi on line, il numero di PEC e di firme digitali assegnate, il ricorso a SPID e all’app IO. Il PNRR offre la possibilità di recuperare questo gap: dei circa 7 miliardi di investimento per la digitalizzazione della PA, l’osservatorio EY rileva che circa 2.7 miliardi sono destinati ai Comuni con bandi già chiusi o in corso.
La digitalizzazione dei comuni non è il traguardo finale ma un nuovo punto di partenza
È evidente che una volta che avremo portato a compimento il processo di trasformazione digitale - con la creazione di circa 8.000 Amministrazioni locali digitali – non avremo ipso facto creato dei contesti urbani sicuri, inclusivi e sostenibili. Al contrario, il bisogno dei cittadini di mobilità, di sicurezza, di protezione, può risultare per certi versi minacciato dal sorgere di nuovi rischi legati ai trend tecnologici (violazione della privacy, cybercrime, manipolazione, etc.). Sorgono nuove sfide anche per le Amministrazioni: come regolare i flussi di persone e merci con una mobilità completamente diversa? Come valorizzare i dati delle grandi piattaforme globali senza perdere il controllo della città? Come favorire l’accesso delle categorie più fragili ai nuovi servizi digitali?
In questo contesto, cogliamo sempre più insistente la domanda delle amministrazioni pubbliche locali su come declinare le tecnologie, come evitare i rischi che ne discendono, e più in generale che tipo di ruolo assumere rispetto all’innovazione.
La prima cosa da fare in questo senso è comprendere che dal potenziale delle nuove tecnologie possono arrivare risposte nuove e più adeguate alle esigenze dei cittadini solo coinvolgendo i diversi soggetti pubblici e privati che operano sul territorio. Si tratta di concepire, a partire dalle Amministrazioni comunali, reti e alleanze territoriali permanenti per l’innovazione, costruite attorno al comune quale hub di riferimento e centro aggregatore.
Si muovono importanti passi in questo senso. Esperienze nate da network tra attori pubblici e privati che, quasi sempre, fanno leva sulla presenza di università e centri di ricerca che agiscono come animatori territoriali e generatori di sviluppo locale: Competence Center, Centri di Trasferimento Tecnologico, Digital Innovation Hub, Incubatori certificati, Punti Impresa Digitale e FabLab, Poli di innovazione. Questo interessante quadro si arricchisce ulteriormente con numerose altre esperienze di hub universitari, academy, centri per il trasferimento tecnologico. Si pensi ad esempio alla Casa delle Tecnologie emergenti di Matera, di cui EY è partner, un ecosistema digitale innovativo per l’attuazione di progetti di sperimentazione, ricerca applicata e trasferimento tecnologico che puntano a trasformare radicalmente la filiera dell’industria culturale, ricreativa e del turismo. L’elemento più interessante di queste esperienze è la loro capacità di promuovere reti, scambi, relazioni con la finalità di coinvolgere, per trasformarlo e irrobustirlo, il tessuto delle PMI locali. Proseguendo e accelerando su questa strada, la città e il territorio diventano laboratori a servizio del sistema produttivo del Paese, in primis per il comparto manufatturiero, che è l’essenza del sistema economico nazionale.
Ma non solo. L’innovazione diventa il veicolo privilegiato della trasformazione. Da mero supporto tecnico-operativo, le nuove tecnologie diventano veicoli per trasformare in meglio la società, colmando i gap presenti e sostenendo i servizi offerti alla collettività. In tal senso, l’accelerazione data dalla pandemia ha mostrato (seppur ancora in minima parte) il contributo che esse possono fornire al settore pubblico e al settore privato, evidenziando quanto possano tradursi facilmente in maggiori e più efficienti servizi per la collettività. Si tratta di un potenziale in gran parte ancora inespresso la cui realizzazione costituisce il vero driver della trasformazione che il nostro Paese deve compiere se vuole rimanere (o forse ritornare a essere) competitivo. Le esperienze di innovazione territoriale che fanno capo alle città costituiscono la base da cui partire per cogliere questa opportunità.
Nelle città l’innovazione può costituire inoltre la chiave di volta per colmare i divari di cittadinanza tra chi sta bene e chi soffre. I network e le alleanze che si sono create attorno alle università e agli innovatori di diverso genere diventano fabbriche di soluzioni nuove ed efficaci per ripristinare condizioni sociali dignitose per tutti i cittadini. La capacità di muoversi e di accedere ai servizi essenziali, la possibilità di curarsi poco distanti da casa (o dentro casa), e quella di essere assistiti in caso di bisogno, la necessità di istruirsi e di essere orientati nella ricerca del lavoro, l’opportunità di godere appieno degli elementi naturali e di trasformarli in valore.
Sistemi di trasporto intelligente e mobilità alternativa, ripensamento dei servizi pubblici in ottica user friendly, servizi sociali disegnati sui reali fabbisogni dei cittadini, servizi per l’impiego basati su modelli predittivi per incrociare domanda e offerta di competenze. L’esperienza di EY accanto ad Anci e come advisor del Programma Operativo Nazionale Città Metropolitane ci pone quali osservatori privilegiati dei grandi progetti di trasformazione urbana, realizzabili solo con un nuovo Patto tra Pubblica Amministrazione, professionisti, aziende. Una nuova alleanza lungo tutto il ciclo di progetto: dalla pianificazione iniziale (analisi dei fabbisogni del sistema produttivo), al disegno delle policy (bandi pubblici orientati alle imprese), alla fase di procurement ed esecutiva. Gli strumenti di cooperazione esistono -si pensi al dialogo competitivo, PPP, partenariati per l’innovazione- e ci sono esempi virtuosi anche in ambito pubblico. Devono essere incentivati e rafforzati al fine di trasferire competenze specialistiche dal privato al pubblico per accrescere la qualità delle istituzioni che è la precondizione necessaria per una vera qualità degli investimenti.
[1] Fonte: DESI 2022
[2] Edizione giugno 2022.